1. Utilizzo dell’autocertificazione nell’emergenza pandemica
L’uso dell’autocertificazione è diventato, ormai, parte integrante della nostra vita, almeno per coloro che hanno avuto intenzione di uscire dalle mura di casa prima del 18 maggio 2020.
In pratica, tutti ci siamo trovati nella condizione di dover giustificare chi siamo, dove abitiamo, dove stiamo andando e perché. Tutto questo in ragione di quel bene superiore che è la tutela della salute pubblica.
Fin qui parrebbe non esserci alcun problema, dal momento che tutti ci rendiamo conto che stiamo vivendo una situazione di grande emergenza e giustifichiamo tale attività di vigilanza pensando che le autorità debbano pur controllare chi trasgredisce l’imperativo del “NON USCITE DI CASA”.
Tuttavia, ad un occhio più attento, non sfugge il fatto che qualche profilo di illegittimità vi sia eccome, tanto che diversi esponenti del mondo giuridico contemporaneo hanno
cominciato a dar voce alle proprie perplessità (tra gli altri, si cita il contributo pubblicato su “Il Dubbio” dal Professore Ordinario di diritto amministrativo dell’Università di Cagliari, avv. Felice Ancora).
Vediamo, quindi, quali possono essere queste criticità che fanno storcere il naso a chi di legge si occupa quotidianamente.
2. Fonti normative e circostanze autocertificabili
Per prima cosa, è opportuno analizzare cosa si intende per “autocertificazione” e qual è la sua fonte normativa.
La disciplina è contenuta nel D.P.R. n. 445/2000, che ha completamente stravolto la precedente, risalente agli anni ’60 (L. 15/1968).
Di fatto, si tratta di una dichiarazione che il privato cittadino sottoscrive in sostituzione di alcune certificazioni amministrative (anche detta “dichiarazione sostitutiva”). Ovviamente, tale modalità era utilizzata ben prima dell’arrivo del Coronavirus ma, adesso, è stata “riadattata” alle nuove esigenze di controllo, stravolgendone – in parte – la funzione.
Quali sono allora le circostanze che si possono autocertificare: l’art. 46, D.P.R. n. 445/2000, prevede un lungo elenco di qualità personali che possono essere attestate mediante questa dichiarazione sostitutiva. Si tratta, a mero titolo esemplificativo, di informazioni quali il luogo e data di nascita, la residenza, la cittadinanza, lo stato civile, eventuali precedenti penali, e altre qualità che risultano dai registri di stato civile. In alcun modo, tuttavia, un’autocertificazione può sostituire certificati medici, sanitari, veterinari etc. (art. 49, D.P.R. n. 445/2000).
La “ratio” è, quindi, quella di semplificare l’iter burocratico, lungo e inutilmente complesso, che sarebbe necessario per ottenere le certificazioni amministrative.
Ebbene, già da questo si può facilmente comprendere come l’impiego dell’autocertificazione per controllare (di fatto) gli spostamenti dei cittadini, sia certamente un metodo comodo ma – indubbiamente – non coerente con la ratio imposta dalla legge.
3. Ratio della normativa
Per analizzare più nel dettaglio il modulo predisposto dal Governo, è necessario soffermarsi in particolare sull’ultimo emanato, ossia quello introdotto con il D.P.C.M. del 26 aprile 2020 in vista degli spostamenti che saranno concessi nella “FASE 2”, e che a partire dal 4 maggio è l’unico utilizzabile.
Ecco un breve riassunto delle tappe precedenti, per comprendere cosa sia effettivamente cambiato con l’avvento della “FASE 2”: prima del D.P.C.M. 26 aprile 2020, si poteva uscire di casa solamente per tre motivi: comprovate esigenze lavorative, motivi di salute, situazione di necessità (andare in farmacia o fare la spesa). Questo per gli spostamenti all’interno del proprio Comune. Per quanto riguarda i trasferimenti tra Comuni diversi, essi erano concessi sostanzialmente per gli stessi motivi: lavoro e salute, mentre i “motivi di necessità” erano sostituiti con “esigenze di assoluta urgenza”.
Fino al 18 maggio, in buona sostanza, è rimasto tutto invariato, tranne per il fatto che il limite territoriale agli spostamenti non è più quello comunale, bensì quello regionale, e per il fatto che tra le situazioni di necessità vengono ricomprese anche le visite ai “congiunti”.
Ebbene, sul tema dei “congiunti” non occorre soffermarsi, dal momento che la diatriba su cosa effettivamente significhi questo termine è già ampiamente discussa sul web.
Si osserva solamente come sia servito a ben poco il “chiarimento” pervenuto dal Governo, il quale ha specificato che con la parola “congiunti” si fa riferimento agli “affetti stabili” (quindi, non solo i familiari). Questo termine, in realtà, ha reso ancora più difficile capire a chi – in concreto – si può fare visita a e chi no…
Discorso analogo si può fare per la questione dello sport: il D.P.C.M. 26 aprile 2020 prevede che è consentito uscire di casa solo per lavoro, salute e necessità, salvo poi autorizzare le uscite per praticare attività motoria anche lontano da casa (prima del 4 maggio solo “nei pressi della propria abitazione”, dicitura che portava taluni a essere sanzionati perché venivano sorpresi a passeggiare a 500 metri dal portone di casa, ma non altri che si trovavano a 1 km, dal momento che il potere di infliggere la
multa dipendeva solo e soltanto da quale fosse l’interpretazione scelta dell’autorità accertatrice).
Poi è stata introdotta anche la categoria della “attività sportiva”, diversa dall’attività motoria (diversa in cosa non è ben chiaro, comunque per la prima bisogna mantenere 2 metri di distanza gli uni dagli altri, mentre per la seconda ne basta 1).
Ancora vietate, invece, sino al 18 maggio, l’attività ludica e ricreativa (che, quindi, si desumono essere cosa diversa da quelle motoria e sportiva).
4. Dichiarazione di non positività al Covid-19
Ma, forse, la questione ancora più assurda è che la nuova autocertificazione chiede di dichiarare sotto la propria responsabilità di non essere risultato positivo al Covid-19. Ora, si vuole intendere che tale dichiarazione la possa fare esclusivamente chi è stato effettivamente sottoposto al tampone, dal momento che non avrebbe senso chiedere ai cittadini di certificare una condizione di salute della quale sono totalmente all’oscuro (anche perché è risaputo che buona parte della popolazione sia stata contagiata dal Covid-19 ma, a causa dello scarseggiare dei test, non hanno conferme in tal senso).
Quello che è certo è che, comunque, un’informazione del genere non sarebbe certificabile tramite la dichiarazione sostitutiva, dal momento che l’art. 49, D.P.R. n. 445/2000 vieta espressamente tale facoltà.
Tutto questo per dimostrare come le norme stesse, che impongono di giustificare gli spostamenti tramite la compilazione dell’autocertificazione, non sono affatto chiare: c’è una totale indeterminatezza delle regole che impongono cosa si può e non si può fare, imponendo altresì di attestare circostanze che – in realtà – non sarebbero “autocertificabili”.
5. Criticità amministrative e penali
E qui si giunge ad una delle criticità maggiori: l’autocertificazione così come predisposta dal D.P.C.M., ha sottoposto i privati cittadini ad un duplice ordine di controlli: da un lato, la verifica riguardante la fondatezza dei motivi di “urgenza” che giustificano lo spostamento; dall’altra, la veridicità di quanto affermato nella dichiarazione stessa.
Nel primo caso, si rischia una sanzione amministrativa per aver violato le disposizioni che impongono di uscire solo per i casi di urgenza. Nel secondo, si rischia un procedimento penale per violazione dell’art. 495 c.p. (articolo espressamente richiamato nella dichiarazione), ossia per falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale.
Detto altrimenti, c’è il serio rischio di essere sanzionati (amministrativamente e penalmente) per qualcosa che non si è compreso affatto.
La gravità di tale situazione è facilmente comprensibile. Ancora di più se si pensa che questi controlli sono totalmente rimessi alla discrezionalità delle autorità accertatrici, circostanza che aumenta di molto la probabilità che la legge venga applicata con diseguaglianza. A ben vedere, questa non dovrebbe essere una situazione tollerata in un Paese che si arroga il titolo di “Stato di Diritto”.
6. Violazione del diritto di non auto incriminarsi (“nemo tenetur se detegere”)
Facciamo un passo ulteriore. Al momento i controlli sugli spostamenti dei cittadini si sono svolti tramite l’esibizione, ed il ritiro, delle autocertificazioni da parte delle autorità. Sia concesso un breve cenno al fatto che vi sono stati controlli di questo tipo anche da parte di corpi assolutamente non deputati a ciò (ad esempio la protezione civile), e questo è un altro fattore che indica la criticità della situazione attuale.
Ebbene, la motivazione per cui si svolgono tali controlli è quella igienico-sanitaria, relativa alla necessità di contenere la diffusione del Coronavirus. In altri termini, si tratta di un controllo di matrice amministrativa.
Si badi però che, in qualunque ambito si svolgano accertamenti di questo tipo (si pensi alle violazioni del codice della strada), è necessario che l’autorità rediga un verbale di contestazione. Questo per garantire al cittadino la facoltà di esercitare i propri diritti (comprendere l’attività di accertamento svolta sulla sua persona, eventualmente impugnare il verbale e così via).
Eppure, spesso i controlli si svolgono con la mera richiesta di esibizione di un documento identificativo e con il ritiro
dell’autocertificazione, senza che a ciò segua la redazione di alcun verbale ufficiale (eventualmente solo un’annotazione a uso interno dell’organo che ha svolto l’accertamento stesso).
Il problema si acuisce ulteriormente se si pensa che, oltre alla sanzione amministrativa, si rischia una sanzione penale (e non tra le più leggere, dal momento che l’art. 495 c.p. punisce chi trasgredisce “con la reclusione da uno a sei anni”).
Inoltre, il fatto che non venga redatto un verbale non viola solo le regole procedurali, bensì anche un principio ben più importante, tanto da essere considerato uno dei principi cardine del nostro ordinamento penale: il diritto di non auto incriminarsi (il c.d.“nemo tenetur se detegere”).
Tale principio trova fondamento nel bilanciamento degli interessi in gioco, attribuendo una maggior rilevanza alla libertà personale piuttosto che all’interesse dello Stato di perseguire i reati.
In Italia tale concetto è concepito, in modo riduttivo, come espressione del diritto di difesa costituzionalmente tutelato.
Ecco perché, nella prospettiva di rischiare un procedimento penale per false dichiarazioni, sarebbe quantomeno auspicabile la redazione di un verbale: se si attestano circostanze non vere nell’autodichiarazione, si commette reato di false dichiarazioni (art. 495 c.p.); mentre in occasione di un verbale di contestazione si è tutelati dal principio di non autoincriminazione.
In più, in un’ottica processual-penalistica, la menzogna (o inesattezza) espressa nell’autocertificazione – che può portare a subire un procedimento per 495 c.p. – conferisce mandato all’autorità inquirente per procedere con delle intercettazioni telefoniche nei confronti di chi ha commesso il fatto. Questo perché il reato di false dichiarazioni rispetta i requisiti, imposti dall’art. 266 c.p.p., che giustificano l’utilizzo di indagini tanto invasive.
Si tratta, in effetti, di uno degli strumenti investigativi più discussi del nostro ordinamento, e il fatto che si possa impiegare nei confronti di chi – di fatto – ha mentito in un’autocertificazione, magari per poter allungare la propria permanenza fuori da casa di qualche minuto dopo più di tre mesi di lockdown, apre uno scenario alquanto sconcertante.
7. Conclusioni
Ebbene, queste sono tutte circostanze che dovrebbero far riflettere.
Riassumendo:
- la norma da cui discende l’autocertificazione chiarisce quale sia lo scopo di queste dichiarazioni, ossia semplificare l’iter burocratico per avere determinati certificati amministrativi (di certo non il controllo personale);
- nelle autodichiarazioni si chiede di attestare circostanze che, per legge, non si potrebbero attestare (situazione medico- sanitaria);
- le norme dei decreti che dispongono quali sono i motivi per cui si può uscire di casa sono, a dir poco, fumose, e hanno creato parecchie incertezze nei cittadini;
- queste incertezze possono portare le persone ad attestare qualcosa di non corrispondente alla realtà, e, quindi, a commettere inconsapevolmente non solo un illecito amministrativo ma anche ad infrangere la legge penale (esponendoli, potenzialmente, al rischio di essere intercettati telefonicamente);
- i controlli sono totalmente discrezionali e – proprio perché le norme non sono chiare – portano a situazioni di grande disparità a seconda di chi svolge l’accertamento;
- -i controlli svolti in assenza di un verbale di contestazione sono del tutto irrituali ed illegittimi, dal momento che ledono diritti costituzionalmente tutelati.
Alberto Rizzo
Avvocato Cassazionista
Direttore Generale
Accademia di Educazione Finanziaria